le mie foto sono piatte, piane, appiattite, bidimensionali. sono mosse, sfuocate, stralunate, come colpite da un battito e portate via con me. sono foto di riflesso, immediate, intraviste, a volte davvero riflesse. sono scattate attraversando situazioni e superfici, altre sono solamente scritte, altre ancora mancate. e poi ci sono i pali, e la gente che lavora o semplicemente sta lì, e io. assolutamente a colori. per ora.

venerdì 29 aprile 2011

milano, 13 marzo 2011, 13:40 by photocorti
milano, 13 marzo 2011, 13:40, a photo by photocorti on Flickr. 
Dies irae, dies illa, dies tribulationis et angustiae, dies calamitatis et miseriae, dies tenebrarum et caliginis, dies nebulae et turbinis, dies tubae et clangoris super civitates munitas et super angulos excelsos
spazio forma ospita, fino al 15 maggio 2011, dies irae di paolo pellegrin. antologica di uno dei più importanti fotografi d'italia e non solo.

prima di andare non so molto di lui, so che è nato a roma nel 1964, che entra in magnum nel 1999, diventandone membro effettivo nel 2005, che ovunque ci siano tragedie e povertà e orrori lui è lì a testimoniarle.

mi guardo qualche scatto sul web e di pelle sento che mi innervosiscono, mi fanno dire eccolo l'occidentale che cerca gli orrori, i dolori, le fatiche, le disperazioni per farne mera ricerca estetica.

decido di andarci comunque. di sfidare la rabbia che probabilmente sentirò. e infatti bastano pochi scatti, foto troppo storte, vignettate, sgranate, mosso e sfuocato, di moda, composizioni che paiono studiate a tavolino, come itinerari del grand tour, pittoreschi, molto pittoreschi. e chissenefrega se la gente muore, se la gente soffre.

poi un video e il giudizio cambia. in lebanon ritrovo alcuni degli scatti in mostra, ma qui paiono meno "pastrugnati", la grana meno d'effetto, più diretti e dolorosi, sempre ricercati e compositivamente perfetti, ma improvvisamente oltre la rabbia ecco il dolore, e il dolore è testimoniato con partecipazione, empatia, rispetto.

la mente non ha più niente da dire, può solo osservare gli scatti, sentirli, ed esserne a sua volta testimone.

e arriva anche il dubbio che quella ricercatezza formale, estetica altro non sia che una scappatoia per continuare ad attraversare l'assurdo che scorre davanti agli occhi e continuare a scattare, e non bloccarsi e non scappare via.

forse, non so.... io comunque alla fine ho sentito la necessità di uno scatto che rimettesse un po' di ordine nelle mie emozioni, formale, equilibrato, mi serviva e quel divisorio nero in mezzo me lo ha regalato




sono tutto fuorché un fotografo d'assalto. sono un fotografo dei tempi lunghi, mi interessa la dimensione umanistica di quello che faccio, il racconto dell'uomo, e questo richiede un rapporto, anche dilatato, con i soggetti, i luoghi.
io come fotografo mi ritengo la scintilla, l'incrocio di cose che hanno creato delle immagini che poi hanno vita propria e quasi non mi appartengono più.

non ragiono in termini di singole immagini, ciò che mi interessa è un corpus di lavoro, come per esempio quello sulla palestina: lì c'è la guerra in libano nel 2006, ci sono le varie incursioni israeliane in cisgiordania o a gaza. la mia idea è di una fotografia che si compone di singoli momenti che formano un insieme, un organismo che racconta la Storia. noi abbiamo il grande privilegio e la responsabilità di essere dei testimoni.
se decidi di assumerti il ruolo di testimone, esporsi è una condizione sine qua non, fa parte dell’equazione, complessa per altro, dello stare in certi posti. e starci vuol dire anche muoversi e riuscire a navigare e sopravvivere.

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