le mie foto sono piatte, piane, appiattite, bidimensionali. sono mosse, sfuocate, stralunate, come colpite da un battito e portate via con me. sono foto di riflesso, immediate, intraviste, a volte davvero riflesse. sono scattate attraversando situazioni e superfici, altre sono solamente scritte, altre ancora mancate. e poi ci sono i pali, e la gente che lavora o semplicemente sta lì, e io. assolutamente a colori. per ora.

lunedì 12 settembre 2011


sveglia, colazione, scorta di tramezzini e acqua ed eccoci pronte per una giornata in Biennale, oggi tocca ai Giardini con i padiglioni nazionali e la seconda parte di esposizione proposta dalla Curiger, ospitata dal vecchio Padiglione Italia. c'è leggera coda all'ingresso, ma noi il biglietto l'abbiamo già, si entra, si gira a destra ed ecco la Svizzera con Thomas Hirschhorn e il suo Crystal of resistance:
Crystal of Resistance è il titolo del mio lavoro per il Padiglione Svizzero della Biennale di Venezia 2011. Con il mio lavoro Crystal of Resistance voglio porre tre domande. Primo: Il mio lavoro può creare un nuovo concetto di arte? Secondo: Il mio lavoro può svilupparsi in un 'Corpus critico'? Terzo: Il mio lavoro, oltre al pubblico degli amanti dell’arte, può coinvolgere un 'Pubblico Non Esclusivo'? A queste domande sul mio lavoro, a questi obiettivi e a quest’ambizione, o esigenza che io ho come artista, voglio dare una risposta col mio lavoro e nel mio lavoro.

Io credo che l’arte sia universale, credo che l’arte sia qualcosa di autonomo, credo che l’arte possa innescare un dialogo o un confronto - faccia a faccia - e credo che l’arte possa includere chiunque. Quando scrivo 'credo', lo faccio non solo perché lo penso, non solo perché ne sono convinto, ma scrivo 'credo' perché non si tratta di saperlo, non si tratta di dimostrarlo e non si tratta di provarlo, ma perché nell’arte, si tratta di credere.

Con Crystal of Resistance voglio realizzare un lavoro che sia irresistibile. Tuttavia, ciò può essere fatto solo qualora io riesca a realizzare un lavoro dal profondo del mio animo, ma non confondendo il profondo del mio animo, che anch’esso è sempre universale, con il 'personale'. Non posso raggiungere l’universale con il 'personale'. Il 'personale' non mi interessa, perché non è resistente in sé, perché è sempre una spiegazione, se non addirittura una scusa. Solo se il mio lavoro è in grado di oltrepassare i confini del 'personale', dell’accademico, dell’immaginario, del particolare, del contesto e della contemplazione, esso può essere efficace. Con mio lavoro Crystal of Resistance voglio ritagliare una finestra, una porta, un’apertura o semplicemente un buco nella realtà da oggi: questa è la breccia che, irresistibilmente, trascina tutto via con sé.
Thomas Hirschhorn
ora io non so se l'artista ha raggiunto il suo obiettivo e se ne è contento, è un padiglione pieno, pienissimo, quasi arruffato, comunica, incuriosisce, ma non incanta, perlomeno me, troppo affetta da horror vacui la sua arte, anche se alcune cose mi sono piaciute.


segue Speech matters ovvero il padiglione danese che ospita una mostra collettiva di artisti internazionali, curata da Katerina Gregos
(la mostra) esplora il tema estremamente attuale e complesso della libertà di parola. La questione della libertà di parola viene sempre più messa in discu ssione alla luce delle trasformazioni che stanno avendo luogo in tutto il mondo, sia nei regimi autoritari che nelle democrazie liberali, in cui le libertà civili sembrano essere oggetto di crescenti minacce. (...) L’obiettivo è provocare un dibattito ponderato e far emergere la complessità del tema della libertà di parola, che sembra essere utilizzato sempre maggiormente come vuoto slogan politico oggetto di un dibattito molto semplificato, parziale e populista. Si tratta in realtà di una questione estremamente complessa e spesso ambivalente che è condizionata da opinioni soggettive di carattere politico, sociale, culturale, religioso e personale. Proprio per questo il dibattito sulla libertà di parola è particolarmente relativo e aperto. La mostra si propone di mettere in evidenza alcune delle caratteristiche intrinseche, ambiguità e zone d’ombra relative al tema, sottolineando il fatto che la libertà di parola non può essere esercitata o applicata in forma programmatica o rigidamente prestabilita, e che i suoi confini non possono essere facilmente delimitati.
comunicato stampa
come intutte le mostre collettive ci sono cose che mi colpiscono, altre che mi lasciano perplessa, altre che mi divertono, altre ancora che mi portano riflessioni, in generale però un progetto a mio avviso riuscito, tra i tanti artisti in mostra segnalo Han Hoogerbrugge con un divertente video d'animazione, The garden,  video di Jan Švankmajer, il progetto fotografico An American Index of the Hidden and Unfamiliar di Taryn Simon e non ultimo A Second History un interessante progetto dell'artista cinese Zhang Dali, che riflette sul rapporto fra realtà storica e immagini, mostrando alcune foto utilizzate per la propaganda maoista cinese giustapposte ai negativi degli scatti originali pre-manipolazione: da vedere soprattutto per quelli che pensano che prima dell'era digitale la fotografia era documento di verità.


di fianco il padiglione nordico, quest'anno tocca alla Svezia. come sempre difficile per gli artisti in mostra sopravanzare la splendida architettura di Alvar Aalto che quest'anno mi regala uno scatto che mi piace davvero un bel po'.


segue il Venezuela con Espacios, in cui trova spazio anche la presentazione de Velada de santa Lucia, il progetto con cui Clemencia Labin trasforma Maracaibo in un museo d'arte contemporanea diffuso con il contributo di tutti gli abitanti della sua città. nel padiglione anche le immagini coloratissime e pop che più pop non si può di Francesco Bassim, oltre alle bianche pareti di carta pazientemente piegata di Yoshi.


ma è il momento di entrare in Russia che quest'anno ci da la possibilità di scoprire o ri-scoprire Andrei Monastyrski e l'ormai storico gruppo artistico da lui fondato, Collective Actions. al  di là del valore del gruppo, comunque molto interessante, il padiglione è come sempre ben allestito e offre buone occasioni di scatto.


eccoci in Giappone che quest'anno presenta le raffinate ed emozionanti animazioni video di Ayako Tabata aka Tabaimo, la cui visione ci sarà interrotta per permettere il recupero di un giaccone di uno spettatore distratto finito non si sa come in fondo ad una specie di pozzo-schermo: peccato!

si rimane in oriente con il padiglione coreano che propone il lavoro di Lee Yongbaek, The Love is gone, but the Scar will heal, dopo la brutta parentesi del 2009, la Corea torna a convincerm un progetto coerente, di impatto e contenuto. teoricamente lo spazio dovrebbe essere popolato da performer vestiti mimetici, ma oggi non ce ne sono, o meglio non ce ne dovrebbero essere... ringrazio la fotografa che ha deciso di prenderne il posto.

 a seguire il padiglione canadese dal titolo Exhume to Consume, mostra monografica di Steven Shearer, artista poliedrico che presenta un'enorme stele nera all'esterno piena di parole e molti quadri sicuramente ben fatti che ricordano la pittura della Secessione viennese, ma che non mi suscitano particolare entusiamo.

così come non mi entusiasma Egomania, che ha permesso alla Germania di aggiudicarsi il Leone d'Oro per la migliore partecipazione nazionale e che ripercorre in tre ambienti diversi l'attività artistica di Christoph Schlingensief. C'è il suo cinema, il suo Operndorf Afrika e soprattutto la sua Church of Fear. molto probabilmente il premio è meritato e io troppo stanca per apprezzare un'opera piena di rimandi colti e autobiografici.

meno male che subito dopo tocca al Padiglione della Gran Bretagna. Con I, impostor Mike Nelson ci catapulta in turchia, o meglio nella turchia che lui ricorda, e lo fa ricostruendola in scala 1:1 in un disorientante e affascinante percorso fatto distanze, cortili, laboratori, camere oscure, latrine. a completare la sensazione di straniamento la presenza di eteree signorine dotate di i.mac.


pochi passi e siamo in Francia, partecipazione quasi sempre foriera di proposte interessanti, quest'anno poi si va sul sicuro con Christian Boltaski, e la sua Chance: si tratta di un'installazione site-specific interna ed esterna al padiglione (fuori ci sono due sedie che chiedono se sarà l'ultima volta che ti siederai lì) che ci porta a riflettere, come spesso accade con le opere dell'artista, sul senso della vita e della morte. all'interno del padiglione scorrono in una gigantesca "rotativa-ruota della fortuna" immagini di neonati, quando un visitatore preme un pulsante la macchina si ferma e uno dei neonati è scelto, come sarà la sua vita? contemporaneamente si forma su un altro schermo un'immagine casuale formata da tre diversi frammenti provenienti dalle foto dei neonati e da altre rappresentanti uomini ormai deceduti, anche il visitatore partecipa al gioco, se le immagini dovessero creare un'immagine omogenea avrà vinto un'opera di Boltanski. si gioca ma intanto la vita scorre con le sue nuove nascite e i suoi nuovi decessi che vengono costantemente contabilizzati in due stanze laterali. come sempre un lavoro che mi affascina e mi coinvolge, nonostante la stachezza cominci a farsi sentire.


seguono l'Australia, con il lavoro di Hany Armanious, uno scultore che apparentemente si limita ad assemblare oggetti di uso comune, ma che in realtà li costruisce in resina di poliuretano con un processo molto lungo e laborioso (così così), gli Stati Uniti con il duo Allora & Calzadilla (presenti alla precedente edizione con un rinoceronte di terra) che, forti della presentazione della Gladstone di New York e della Lisson di Londra, presentano Glory, una riflessione sulla società americana contemporanea fatta di soldi, voli e fitness (quando la visitiamo noi non c'è alcun performer in azione e il tutto pare un filino così così, nonostante il grande impatto visivo del carro armato rovesciato appena fuori dal padiglione), la Spagna rappresentata da Dora Garcia  con il progetto L'inadeguato: sicuramente troppo teorico e complicato per la mia mente quasi allo stremo, anche se spunto di qualche scatto-clichè.


prima della pausa il Belgio e l'Olanda, io non ce la faccio più e quindi lascio a Monica la visita e ovviamente sospendo ogni giudizio sulle opere, preferendo l'assaggio di cafè zero che Algida promette essere un'intensa esperienza di gusto, sarà... a me pare un po' meno di così così. comunque fatta la sosta entriamo nel padiglione centrale sede della seconda (o prima) parte di ILLUMInations/ILLUMInazioni. lo spazio ospita anche l'ASAC ovvero la Biblioteca della Biennale che però è chiusa (meglio, chè altrimenti con Monica non so quanto ci saremmo state....).


la Curiger in questa parte di esposizione racchiude alcuni fra gli artisti più affermati e ci entro con molte aspettative che ahimè verranno parzialmente deluse. di seguito alcuni scatti e alcune annotazione sui lavori che in qualche modo mi hanno colpito. alla rinfusa e senza pretesa di esaustività!

entriamo, andiamo a sinistra, dove ci accoglie Classroom: partial exercises di Nicolas Paris: le lezioni sono finite ne rimane solo la documentazione.

.venezia, 16 agosto 2011, 15:17 by photocorti

dopo alcune sale popolate da video, ecco i curiosi automi dai lunghi capelli di Nathaniel Mellors, come tutte le cose interattive colpiscono e incuriosiscono, insomma ci si ferma a guardare.


venezia, 16 agosto 2011, 15:24 by photocorti

poi, finalmente, la sempre grande Cindy Sherman con una sala semplicissima, ma geniale, così come sempre sono i suoi scatti e le sue elaborazioni fotografiche. l'adoro!


la sala successiva pare essere la più interattiva di tutta l'esposizione, Norma Jeane (pseudonimo usato da un/una artista o un gruppo di artisti) presenta Who's Afraid of Free Expression?: inizialmente un parallelepipedo in plastilina con i colori della bandiera egiziana, ma gli spettatori che hanno il compito di toccare, modificare, creare con l'opera si sono applicati e ora la plastilina è ovunque (nella stanza però che è vietato farla uscire da lì: va bene la libertà di espressione, ma che sia limitata mi raccomando!).


subito dopo la stanza di Pipilotti Rist, altra artista che mi piace molto, Illuminazione consta di tre monitor con delle strane vedute ottiche tratte da Canaletto e rielaborate dalla geniale artista svizzera, forse un'opera minore rispetto alle ultime presentate anche nelle scorse Biennali, forse un'opera un po' troppo museo del cinema, ma comunque interessante e piacevole da osservare.

c'è poi il para-padiglione di Monika Sosnowska, Antechamber, che ospita, oltre ad una seconda opera di Haroon Mirza, Ex-offenders at the scene of crime il lavoro del fotografo sudafricano David Goldblatt che ritrae ex-carcerati sul luogo in cui hanno commesso il crimine per cui sono stati dichiarati colpevoli, il tutto accompagnato da un lungo racconto scritto della loro vita e del loro crimine. alcune immagini mi colpiscono molto, alte un po' meno, non ci vedo una grande unitarietà stilistica e il progetto (perlomeno le parole che lo accompagnano) un po' troppo "giudicante": dovrò ripensarci su, però.


in mostra anche gli scatti Luigi Ghirri: ho finalmente l'occasione di vederne qualcuno dal vivo, dopo tante parole sentite al riguardo, è una fotografia gentile, rarefatta, silenziosa, quasi velata e circondata da ovatta a toglierne i rumori, mi piace, studierò. e, a parer mio, nel para-padiglione della Snosnowska ci stava forse meglio lui.

e anche Fischli & Weiss, altre star dell'arte elvetica, altri artisti che conosco e che mi piacciono un po' e che mi deludono, o meglio poco comprendo con quella luna e quei solidi grigi, quasi buttati là in una sala anonima, qualsiasi (ma a questo punto inizia a sorgermi il dubbio che non siano le opere il problema, ma la loro collocazione...).

e ancora i calchi in silicone dell'iraniana Nairy Baghramian, silenziosi anche loro, forse troppo, comunque ecco un estratto dal catalogo:
l'installazione presenta il guscio, la storia possibile di un gruppo scultoreo compiuto. Come in gran parte delle sue opere, l'artista usa il contesto, confrontandosi in questo caso con quello del cubo bianco quale luogo ideale per esporre opere d'arte (assolutamente decontestualizzate) attraverso l'introduzione di un altro guscio che mostri l'interno, il discorso che viene generato persino da questo ambiente candido.
Pieternel Vermoortel

al centro, la sala dedicata al Tintoretto, non si può fotografare, non si capisce cosa sta lì a fare, ovunque i piccioni di Maurizio Cattelan che, decisosi ad interrompere la sua attività d'artista per curare riviste fra cui Toilet Paper, ripresenta, aumentati, i piccioni impagliati della Biennale '97.


arriviamo alla fine del padiglione e ancora mi sfugge il senso di questa esposizione, il perchè di questi artisti e perchè son stati messi lì invece che là.

comunque qua trovate l'introduzione della Curiger alla sua Biennale, mentre qui di seguito le 5 domande agli artisti del mondo, fatte dalla stessa a tutti gli artisti invitati e che dovrebbero quindi ILLUMInarci sul senso del tutto:
Dove ti senti ‘a casa'? Il futuro parla in inglese o in quale altra lingua? La comunità dell'arte è una ‘nazione'? Quante nazioni senti dentro di te? Se l'arte fosse una nazione, cosa ci sarebbe scritto nella sua Costituzione?
Bice Curiger
sarà? c'è ancora tempo, fuori visitiamo il padiglione di Israele. nessuno scatto, ma interessante, come quasi sempre: quest'anno presenta il lavoro di Sigalit Landau, videortista nata a Gerusalemme, su tutti il video Salt Crystal Shoes on a frozen Lake. segue quello ungherese: Crash - Passive Interview è un'opera lirica perlomeno singolare con cui Hajnal Németh fa raccontare storie di quotidiani incidenti stradali da operai di una fabbrica di automobili; delirante e affascinante nello stesso tempo. il tempo manca, la stanchezza avanza, io rinuncio a visitare altro, e mi siedo davanti all'Austria speranzosa che anche questa volta sia generosa con me.


ormai anche gli altoparlanti avvisano che i giardini stanno per chiudere, giusto il tempo per uno scatto a due dei tanti cappelli amanti dell'arte... a fra due anni!

giovedì 8 settembre 2011

dopo un caffè, anzi due, chè il primo si è rovesciato, riprendiamo la visita, entrando nella zona dell'arsenale dedicata ai diversi padiglioni nazionali. si comincia con l'Arabia Saudita, alla sua prima partecipazione ufficiale, con la mostra The Black Arch, tutta al femminile, con molti rimandi colti, che comprendi solo se lo sai, o forse se decidi di rimanere in contemplazione dell'opera a lungo.

subito dopo il bel padiglione argentino con l'opera di Adrian Villar Rojas, Ahora estaré con mi hijo, installazione site-specific di enormi statue d'argilla dalle forme più disparate che mi affascina e colpisce, facendomi entrare in un mondo fantastico e inquietante, diretto discendente del miglior fumetto di fantascienza.

all'interno del padiglione indiano (alla prima partecipazione ufficiale) trova spazio la bellissima installazione di Gigi Scaria (indiano, a dispetto del nome), Elevator from the Subcontinent.  entri in un ascensore e inizi a scendere o a salire, sulle tre pareti scorrono le immagini delle case che l'ascensore attraversa, immagini fotografiche che ci raccontano con geniale semplicità le stratificazioni sociali e architettoniche proprie di ogni città, ce le fanno vivere in una sorta di reportage fotografico emozionale: bello e significativo!

a seguire un altro padiglione interessante: la Croazia presenta infatti  One Needs to Live Self-Confidently... Watching che, al di là delle opere di Antonio G. Lauer a.k.a. Tomislav Gotovac, performer e regista attivo negli anni '60 e  '70, comunque interessanti, presenta il lavoro del collettivo BADco., con un'opera concepita come teatro attraverso altri mezzi, che gioca sulla capacità delle immagini di modificare le nostre percezioni spazio-temporali grazie ad un sapiente e divertente lavoro di sovrapposizione, montaggio, sostituzione di immagini.

altra sala, altra nazione, gli Emirati Arabi Uniti tornano con Second Time Around, una collettiva di tre artisti contemporanei molto diversi fra loro, fra cui le fotografie e i  fotomontaggi di Lateefa bint Maktoum: sarà che il padiglione è molto ordinato, sarà che il caffè fa effetto, sarà che da dopo la pausa la mostra è decisamente più interessante e riuscita, ricomincio a scattare.


a chiudere il percorso delle Corderie Entre siempre y Jamas ,una mostra, promossa dall'IILAche, partendo da una poesia dell'uruguaiano Mario Benedetti, presenta il lavoro di venti artisti latinoamericani fra cui Regina Josè Galindo, troppo piena per me, soprattutto di video, richiederebbe del tempo che non ho, quindi esco all'aria aperta


e poi via con il delirante Padiglione Italia a cura del celeberrimo Vittorio Sgarbi.
Per il Padiglione Italia, si è pensato di non cedere alla tentazione di una scelta arbitraria, ma di interrogare intellettuali, scrittori, filosofi, poeti, musicisti e persone di alto sentire che volessero indicare il nome di un artista vivente, attivo negli ultimi dieci anni, da loro ritenuto più interessante e significativo. Saranno 150 i "segnalatori" della sezione Lo stato dell'arte nel 150° dell'Unità d'Italia (...). 150 testimoni di una raltà che non può essere esiliata in un ghetto avvalorando la tendenza delle gallerie d'arte. 150 punti di vista, per una rappresentazione caleidoscopica e libera dal pregiudizio di un critico che abbia la sua squadra, le sue predilezioni, i suoi protetti. (...) la sezione L'arte non è Cosa Nostra vedrà invece la fedele riproduzione del Museo della Mafia di Cesare Inzerillo. Ma il Padiglione Italia vero e proprio sarà altrove, sarà in tutta Italia (...) Ogni sede sarà Padiglione Italia, consentendo l'esposizione di circa mille artisti in corrispondenza con l'epopea dei Mille nel 150° dell'Unità d'Italia. (...) Mi affiancano, per questa titanica impresam critici e studiosi per esaminare la grande quantità di materiali che arrivano alla mia attenzione.
Dunque "et et", lontani dall"aut aut" cui i critici-curatori-infermieri ci hanno obbligati fino a oggi.
Vittorio Sgarbi
riportato fedelmente lo Sgarbi pensiero, dopo aver consigliato ai futuri visitatori di noleggiare la splendida e illuminante audioguida che accompagna l'esposizione, ecco alcune immagini del Padiglione

si entra e si pensa di essere capitati per sbaglio nel magazzino di telemarket (lo studio non può essere, non c'è spazio per le telecamere), per terra scatole di compensato con i nomi degli artisti e del loro "selezionatore", lì vicino, alle pareti, per terra, appoggiati a scaffali centinaia di quadri, statue, disegnetti, un vero caleidoscopio disorientante di arte buttata lì, quasi a caso, e allora cominciano a sorgere i dubbi sul senso del messaggio sgarbiano: forse il curatore vuole dirmi che non c'è speranza, l'arte non è cosa italiana, o che non è cosa che c'entra con il padiglione da lui (avvezzo da sempre al plurale maiestatis) curato, o che in Italia basta essere nelle grazie di qualcuno che conti per arrivare in Biennale? ma allora perché quelle parole sul catalogo? una presa in giro? comincio a pensare che il guazzabuglio sgarbiano non mi comunichi un senso che riesco a condividere.

sospendo ancora il giudizio, smetto di farmi domande e mi sposto verso la zona dedicata al museo della mafia in cui troneggia una specie di chiesa con al centro un'Italia crocefissa grondante sangue, opera del pluripresente Gaetano Pesce (sue anche due poltronone nel giardino confinante), di fianco le altrettanto pluripresenti (si veda in giardino) opere (belle per carità) di pasta di sale fatte niente po' po' di meno che dalle sapienti mani di donne e uomini di Salemi (di cui il valente curatore credo continui ad essere sindaco), e l'angolo critico in cui il nostro si autoincensa grazie anche ad uno splendido e sponsorizzato schermo televisivo, oltre che a copie fotostatiche di articoli a lui favorevoli, e ancora pittura alle pareti, scultura in terra, opere multimediali, seppur più rade, di qua e di là. forse perchè posizionata in una stanzetta separata, trovo un'opera di mio gradimento, semplice, non barocca, quasi bianca; non mi ricordo chi l'ha fatta, ma eccola qua, anche nella speranza che qualcuna o qualcuno mi faccia sapere di chi è...

saliamo al museo della mafia, vero e proprio, e quasi subito ci imbattiamo ne La classe morta di Cesare Inzerillo con le sue mummie al neon. Inzerillo è uno dei protetti di Sgarbi (lo ha paragonato a Caravaggio), gli altri si riconoscono, per lo più, per lo stile fra il macabro e il kitsch (si pensi agli uomi sbruciacchiati di Aron Demetz, messo in mostra dallo stesso al PAC quando era assessore a Milano, o gli uomini prostrati di Velasco Vitali, nel padiglione confinati in una specie di sottosoppalco); e chissà come mai, alla faccia delle dichiarazioni pro-democrazia, di macabro e kitsch è pieno l'intero padiglione. non so come mi viene in mente un'altra possibile interpretazione del titolo dato al padiglione, l'arte non è cosa nostra (nel senso di collettività), ma è cosa sua, cioè di Sgarbi e dei suoi amici e compaesani... può essere. comunque il museo della mafia a me pare nient'altro che un museo a tema, didattico, al punto da sembrare quasi didascalico, anche se ospita artisti di chiara fama come Inzerillo e a Salemi provoca svenimenti e malori fra i visitatori al punto da costringere il sindaco Sgarbi a vietarne la visione ai minori di 16 anni.


comunque tocca scendere e visitare anche l'altra metà del padiglione (con anche una sezione dedicata alla fotografia curata da Italo Zannier), sempre accatastato, arruffato, confuso, più patriottico di prima (mi stavo quasi dimenticando dei Mille, mannaggia a me!) pitturato alle pareti, ingombrato sul pavimento da arte bella o brutta, non si sa, e neppure importa pare, quasi quasi è meglio scappare.


fuori in giardino, dove troviamo gli ultimi rimasugli del Padiglione Italia, con sculture e installazioni di grandi dimensioni: non ce l'ha faccio più. mi sposto verso l'inconsueta opera olfattiva che apre il padiglione cinese (o lo chiude, dipende da dove si entra), si tratta di Cloud tea di Cai Zhisong, vapore al the sprigionato da nuvole bianche sospese. all'interno Pervasion, questo il titolo dato dal curatore, continua con un percorso fatto di sensazioni rarefatte, quasi impercettibili che non sono stata forse in grado di apprezzare appieno, troppo il contrasto con quanto visto prima. la locations, un ex magazzino dell'olio, rimane comunque la più affascinante e magica di tutta la Biennale capace di regalarmi visioni quasi extraterrestri.

dopo la Cina, alcune opere sparse nelle nuove aree recuperate nel giardino delle Vergini, il tempo però è tiranno e l'orario di chiusura sta per arrivare, diamo un'occhiata veloce ad alcuni dei video presentati (sicuramente interessanti) e a qualche opera, lasciandoci poi rapire dal giardino regalato all'Arsenale da Piet Oudolf, geniale paesaggista olandese vincitore, appunto con quest'opera, del Leone d'Oro alla  12° biennale d'architettura nel 2010. il tempo è finito, l'arsenale chiude e i visitatori sono pregati di raggiungere l'uscita. venezia è fuori che ci aspetta.