le mie foto sono piatte, piane, appiattite, bidimensionali. sono mosse, sfuocate, stralunate, come colpite da un battito e portate via con me. sono foto di riflesso, immediate, intraviste, a volte davvero riflesse. sono scattate attraversando situazioni e superfici, altre sono solamente scritte, altre ancora mancate. e poi ci sono i pali, e la gente che lavora o semplicemente sta lì, e io. assolutamente a colori. per ora.

giovedì 8 settembre 2011

dopo un caffè, anzi due, chè il primo si è rovesciato, riprendiamo la visita, entrando nella zona dell'arsenale dedicata ai diversi padiglioni nazionali. si comincia con l'Arabia Saudita, alla sua prima partecipazione ufficiale, con la mostra The Black Arch, tutta al femminile, con molti rimandi colti, che comprendi solo se lo sai, o forse se decidi di rimanere in contemplazione dell'opera a lungo.

subito dopo il bel padiglione argentino con l'opera di Adrian Villar Rojas, Ahora estaré con mi hijo, installazione site-specific di enormi statue d'argilla dalle forme più disparate che mi affascina e colpisce, facendomi entrare in un mondo fantastico e inquietante, diretto discendente del miglior fumetto di fantascienza.

all'interno del padiglione indiano (alla prima partecipazione ufficiale) trova spazio la bellissima installazione di Gigi Scaria (indiano, a dispetto del nome), Elevator from the Subcontinent.  entri in un ascensore e inizi a scendere o a salire, sulle tre pareti scorrono le immagini delle case che l'ascensore attraversa, immagini fotografiche che ci raccontano con geniale semplicità le stratificazioni sociali e architettoniche proprie di ogni città, ce le fanno vivere in una sorta di reportage fotografico emozionale: bello e significativo!

a seguire un altro padiglione interessante: la Croazia presenta infatti  One Needs to Live Self-Confidently... Watching che, al di là delle opere di Antonio G. Lauer a.k.a. Tomislav Gotovac, performer e regista attivo negli anni '60 e  '70, comunque interessanti, presenta il lavoro del collettivo BADco., con un'opera concepita come teatro attraverso altri mezzi, che gioca sulla capacità delle immagini di modificare le nostre percezioni spazio-temporali grazie ad un sapiente e divertente lavoro di sovrapposizione, montaggio, sostituzione di immagini.

altra sala, altra nazione, gli Emirati Arabi Uniti tornano con Second Time Around, una collettiva di tre artisti contemporanei molto diversi fra loro, fra cui le fotografie e i  fotomontaggi di Lateefa bint Maktoum: sarà che il padiglione è molto ordinato, sarà che il caffè fa effetto, sarà che da dopo la pausa la mostra è decisamente più interessante e riuscita, ricomincio a scattare.


a chiudere il percorso delle Corderie Entre siempre y Jamas ,una mostra, promossa dall'IILAche, partendo da una poesia dell'uruguaiano Mario Benedetti, presenta il lavoro di venti artisti latinoamericani fra cui Regina Josè Galindo, troppo piena per me, soprattutto di video, richiederebbe del tempo che non ho, quindi esco all'aria aperta


e poi via con il delirante Padiglione Italia a cura del celeberrimo Vittorio Sgarbi.
Per il Padiglione Italia, si è pensato di non cedere alla tentazione di una scelta arbitraria, ma di interrogare intellettuali, scrittori, filosofi, poeti, musicisti e persone di alto sentire che volessero indicare il nome di un artista vivente, attivo negli ultimi dieci anni, da loro ritenuto più interessante e significativo. Saranno 150 i "segnalatori" della sezione Lo stato dell'arte nel 150° dell'Unità d'Italia (...). 150 testimoni di una raltà che non può essere esiliata in un ghetto avvalorando la tendenza delle gallerie d'arte. 150 punti di vista, per una rappresentazione caleidoscopica e libera dal pregiudizio di un critico che abbia la sua squadra, le sue predilezioni, i suoi protetti. (...) la sezione L'arte non è Cosa Nostra vedrà invece la fedele riproduzione del Museo della Mafia di Cesare Inzerillo. Ma il Padiglione Italia vero e proprio sarà altrove, sarà in tutta Italia (...) Ogni sede sarà Padiglione Italia, consentendo l'esposizione di circa mille artisti in corrispondenza con l'epopea dei Mille nel 150° dell'Unità d'Italia. (...) Mi affiancano, per questa titanica impresam critici e studiosi per esaminare la grande quantità di materiali che arrivano alla mia attenzione.
Dunque "et et", lontani dall"aut aut" cui i critici-curatori-infermieri ci hanno obbligati fino a oggi.
Vittorio Sgarbi
riportato fedelmente lo Sgarbi pensiero, dopo aver consigliato ai futuri visitatori di noleggiare la splendida e illuminante audioguida che accompagna l'esposizione, ecco alcune immagini del Padiglione

si entra e si pensa di essere capitati per sbaglio nel magazzino di telemarket (lo studio non può essere, non c'è spazio per le telecamere), per terra scatole di compensato con i nomi degli artisti e del loro "selezionatore", lì vicino, alle pareti, per terra, appoggiati a scaffali centinaia di quadri, statue, disegnetti, un vero caleidoscopio disorientante di arte buttata lì, quasi a caso, e allora cominciano a sorgere i dubbi sul senso del messaggio sgarbiano: forse il curatore vuole dirmi che non c'è speranza, l'arte non è cosa italiana, o che non è cosa che c'entra con il padiglione da lui (avvezzo da sempre al plurale maiestatis) curato, o che in Italia basta essere nelle grazie di qualcuno che conti per arrivare in Biennale? ma allora perché quelle parole sul catalogo? una presa in giro? comincio a pensare che il guazzabuglio sgarbiano non mi comunichi un senso che riesco a condividere.

sospendo ancora il giudizio, smetto di farmi domande e mi sposto verso la zona dedicata al museo della mafia in cui troneggia una specie di chiesa con al centro un'Italia crocefissa grondante sangue, opera del pluripresente Gaetano Pesce (sue anche due poltronone nel giardino confinante), di fianco le altrettanto pluripresenti (si veda in giardino) opere (belle per carità) di pasta di sale fatte niente po' po' di meno che dalle sapienti mani di donne e uomini di Salemi (di cui il valente curatore credo continui ad essere sindaco), e l'angolo critico in cui il nostro si autoincensa grazie anche ad uno splendido e sponsorizzato schermo televisivo, oltre che a copie fotostatiche di articoli a lui favorevoli, e ancora pittura alle pareti, scultura in terra, opere multimediali, seppur più rade, di qua e di là. forse perchè posizionata in una stanzetta separata, trovo un'opera di mio gradimento, semplice, non barocca, quasi bianca; non mi ricordo chi l'ha fatta, ma eccola qua, anche nella speranza che qualcuna o qualcuno mi faccia sapere di chi è...

saliamo al museo della mafia, vero e proprio, e quasi subito ci imbattiamo ne La classe morta di Cesare Inzerillo con le sue mummie al neon. Inzerillo è uno dei protetti di Sgarbi (lo ha paragonato a Caravaggio), gli altri si riconoscono, per lo più, per lo stile fra il macabro e il kitsch (si pensi agli uomi sbruciacchiati di Aron Demetz, messo in mostra dallo stesso al PAC quando era assessore a Milano, o gli uomini prostrati di Velasco Vitali, nel padiglione confinati in una specie di sottosoppalco); e chissà come mai, alla faccia delle dichiarazioni pro-democrazia, di macabro e kitsch è pieno l'intero padiglione. non so come mi viene in mente un'altra possibile interpretazione del titolo dato al padiglione, l'arte non è cosa nostra (nel senso di collettività), ma è cosa sua, cioè di Sgarbi e dei suoi amici e compaesani... può essere. comunque il museo della mafia a me pare nient'altro che un museo a tema, didattico, al punto da sembrare quasi didascalico, anche se ospita artisti di chiara fama come Inzerillo e a Salemi provoca svenimenti e malori fra i visitatori al punto da costringere il sindaco Sgarbi a vietarne la visione ai minori di 16 anni.


comunque tocca scendere e visitare anche l'altra metà del padiglione (con anche una sezione dedicata alla fotografia curata da Italo Zannier), sempre accatastato, arruffato, confuso, più patriottico di prima (mi stavo quasi dimenticando dei Mille, mannaggia a me!) pitturato alle pareti, ingombrato sul pavimento da arte bella o brutta, non si sa, e neppure importa pare, quasi quasi è meglio scappare.


fuori in giardino, dove troviamo gli ultimi rimasugli del Padiglione Italia, con sculture e installazioni di grandi dimensioni: non ce l'ha faccio più. mi sposto verso l'inconsueta opera olfattiva che apre il padiglione cinese (o lo chiude, dipende da dove si entra), si tratta di Cloud tea di Cai Zhisong, vapore al the sprigionato da nuvole bianche sospese. all'interno Pervasion, questo il titolo dato dal curatore, continua con un percorso fatto di sensazioni rarefatte, quasi impercettibili che non sono stata forse in grado di apprezzare appieno, troppo il contrasto con quanto visto prima. la locations, un ex magazzino dell'olio, rimane comunque la più affascinante e magica di tutta la Biennale capace di regalarmi visioni quasi extraterrestri.

dopo la Cina, alcune opere sparse nelle nuove aree recuperate nel giardino delle Vergini, il tempo però è tiranno e l'orario di chiusura sta per arrivare, diamo un'occhiata veloce ad alcuni dei video presentati (sicuramente interessanti) e a qualche opera, lasciandoci poi rapire dal giardino regalato all'Arsenale da Piet Oudolf, geniale paesaggista olandese vincitore, appunto con quest'opera, del Leone d'Oro alla  12° biennale d'architettura nel 2010. il tempo è finito, l'arsenale chiude e i visitatori sono pregati di raggiungere l'uscita. venezia è fuori che ci aspetta.

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