solitamente il lunedì la biennale è chiusa, lunedì 15 agosto 2011 no: è aperta per festività. le previsioni meteo non sono delle migliori, allora optiamo per l'arsenale con fra l'altro il famigerato padiglione italia.
prima di arrivarci ci imbattiamo in ... what if roots could grow in the waters of Arsenale?... di Dalya Luttwak, niente di più niente di meno che delle radici rosse metalliche che si inerpicano fra le torri d'entrata dell'arsenale, piacevole.
acquistati i biglietti da un'addetta gentile e canticchiante, prima di entrare, visitiamo proprio di fronte all'ingresso il padiglione frog-topia. hong-kornucopia, partecipazione ufficiale di hong-kong che, in stile rave party berlinese, racconta i molti anni di pratica artistica di un performer colorato, confusionario, alternativ-furbo che, come se non bastasse, mi crea non poca rabbia quando scopro che ha pitturato di rosa una splendida porta veneziana che nel 2009 mi aveva regalato uno dei miei scatti veneziani preferiti (per i curiosi lo potete vedere qui).
lasciato il caos ranesco, un salto al bookshop per acquistare il catalogo versione light e siamo pronte per l'arsenale che racchiude sia padiglioni nazionali sia una parte della mostra curata direttamente dalla contestata Curiger.
nella prima sala ecco il primo dei quattro para-padiglioni voluti dalla curatrice elvetica.
forse questa sarà una delle novità più visibili: ho creato quattro nuovi para-padiglioni, come mi piace chiamarli. Si tratta di strutture architettoniche realizzate da quattro artisti (Song Dong, Monika Sosnowska, Oscar Tuazon e Franz West), una serie di opere-ambiente, a metà fra scultura e architettura, all’interno delle quali troveranno posto opere di altri artisti, in alcuni casi scelti da me, in altri suggeriti dagli stessi autori dei para-padiglioni. Sono opere d’arte che però hanno una funzione di ospitalità, in cui ho cercato di incoraggiare forme di coesistenza, di vicinanza e anche di attrito, che ovviamente sono più estreme che nelle normali stanze di un’esposizione. Ovviamente l'idea dei para-padiglioni è nata da una serie di riflessioni assai diverse: non c’è mai solo un’idea dietro a una mostra. In primo luogo mi interessava guardare alla storia della Biennale di Venezia, con i suoi padiglioni nazionali. Dall’altra, mi sono ritrovata spesso a ripensare alla Biennale di Francesco Bonami del 2003, nella quale c’erano questi improvvise concentrazioni di energia, queste mostre nelle mostre in cui molti artisti e molte opere erano coinvolte in un dialogo più serrato. Volevo anche sfuggire al ritmo ripetitivo che si impone negli spazi dell’Arsenale, in cui un’opera segue l’altra in maniera quasi sempre identica a se stessa, e cosi ho deciso di privilegiare questi incontri tra opere di dimensioni diverse. Volevo creare situazioni più concentrate.il cinese Song Dong per il suo spazio d'artista ospitante, intelligenza della gente povera, ha voluto ricreare, attraverso ante di armadi e leggeri bambù, la fragile e intima atmosfera che respirava nella casa paterna a Pechino. l'esito è sicuramente intrigante ed emozionante, anche se forse più opera d'arte e poco para-padiglione, nel senso che non mi è parso dialogare poi molto con le opere degli altri due artisti presenti in sala, Yto Barrada (alle prese con le rubriche telefoniche di sua nonna analfabeta e con altri ricordi di infanzia: interessante progetto un po' freddino negli esiti) e Ryan Gander (che soprattutto viste le altre cose sparpagliate nel prosieguo dell'arsenale non mi convince neanche un po'). Comunque alla fine grazie al lavoro di Song Dong una delle sale più belle, per me.
Bice Curiger
la seconda sala delle corderie propone Rashid Johnson (scultore e fotografo) con degli pseudo-scaffali adatti ad un loft di lusso, raccontanti storia afro-americana molti intellettuale
le mie sculture hanno come obiettivo che tutti i materiali coabitino in una lingua nuova, con me per autore
Rashid Johnson
di fianco, Mai-Thu Perret, svizzera, piena di contenuti e rimandi colti, che a me, però, pare una vetrinista mancata, Ida Ekblad, norvegese che preferisco quando costruisce cancelli e gabbie per uccellini a quando fa della pittura, Andro Wekua, nato in georgia, abitante a zurigo, che espone una serie di plastici di edifici legati ai suoi ricordi di infanzia, e per finire le immagini cromogeniche di Annette Kelm che ancora non ho capito se trovo interessanti oppure no.
nella sala successiva, finalmente della fotografia come può piacere a me, è quella dei Bird Head, un collettivo fondato nel 2004 da Song Tao e Ji Weiyu, due fotografi abbastanza giovani che raccontano con immagini a colori e in bianco e nero la vita quotidiana a Shanghai, snap-shot apparentemente scattati a caso che rivelano però occhio compositivo: in mostra quattro pareti di immagini, alcune delle quali molto belle, altre ovviamente meno, comunque capaci di raccontare come vive Shanghai, o meglio come vive qualcuno a Shanghai.
nella sala successiva, finalmente della fotografia come può piacere a me, è quella dei Bird Head, un collettivo fondato nel 2004 da Song Tao e Ji Weiyu, due fotografi abbastanza giovani che raccontano con immagini a colori e in bianco e nero la vita quotidiana a Shanghai, snap-shot apparentemente scattati a caso che rivelano però occhio compositivo: in mostra quattro pareti di immagini, alcune delle quali molto belle, altre ovviamente meno, comunque capaci di raccontare come vive Shanghai, o meglio come vive qualcuno a Shanghai.
poco più avanti ancora fotografia con Dayanita Singh: indiana, nata nel 1961, è presente con due lavori apparentemente molto diversi fra loro. il primo, file room, mi parla di un passato forse scomparso, sicuramente non più importante, attraverso un'interessantissima e molto classica serie di scatti in bianco e nero dedicata a stanze d'archivio in stato di quasi o totale abbandono. il secondo, dream villa slideshow, ospitato all'interno dal parapadiglione di Franz West (artista austriaco, vincitore di uno dei due leoni d'oro alla carriera assegnati dalla Curiger), mi racconta un viaggio onirico, silenzioso, delicatamente colorato in un India privata ed intima, lontanissima dai cliché cui mi hanno abituata anni di immagini reportagistiche.
poco dopo, il "leporello di 12 metri" di Mariana Castillo Deball mi offre l'occasione di uno scatto
così come le fotografie fra il naturalistico e il "ma... chissà... anche no" di Jean-Luc Mylayne
a questo punto, per non essere da meno, prendo il coraggio a due mani e decido di iniziare un nuovo progetto d'artista con il primo autoritratto d'ombra (aspettatevene molti altri che per me la cocciutaggine progettuale è condizione d'artista...)
qualche passo e nella sala che ospita l'installazione con video di Shahryar Nashat, anche Monica, forse perchè ha evitato di sedersi sulle panche d'artista, pare un filino perplessa, nonostante l'illuminante descrizione presente sul catalogo, o forse proprio per quella:
qualche passo e nella sala che ospita l'installazione con video di Shahryar Nashat, anche Monica, forse perchè ha evitato di sedersi sulle panche d'artista, pare un filino perplessa, nonostante l'illuminante descrizione presente sul catalogo, o forse proprio per quella:
(...) Nashat si concentra sul trasferimento degli oggetti artistici all'interno dei musei o da esse verso l'esterno e, insieme, sugli apparati museografici che stabiliscono i modelli di pensiero e movimento dello spettatore. Il suo video è collocato in un ambiente appositamente disegnato, che comprende una serie di panche realizzate in un gesso resistente. Mentre egli recupera l'ambiente espositivo, il pubblico continua a essere ingannato da quell'ambiente e si sforza di trovare strumenti con cui valutare la sua costante manipolazione all'interno di esso.
Gemma Sharp
nel corridoio seguente, alcuni plexiglass colorati appoggiati alla parete aumentano la mia perplessitudine, occasione per provare un riflesso un filino diverso dal solito
poco più avanti la sala proposta da Urs Fischer in cui alcune statue di cera (fra cui una copia del Ratto delle sabine del Giambologna) bruciano, modificandosi man mano che il tempo passa, la sala, di sicuro effetto, scatena i clic dei visitatori e quindi anche i miei...
nella grande sala che segue ecco l'installazione colorata di Anna Titova, giovane artista russa
L’opera di Anya Titova tratta la produzione dello spazio e dubita della potenzialità delle strutture post-utopiche. Le installazioni di Titova, fatte di travi, griglie sospese, cubi minimalisti, plinti e piattaforme di esposizione etnografiche o consumistiche, ricordano la scultura pubblica e l’anarchia che esse possono provocare in forma di graffiti, impronte digitali e scritte aggressive sulla sua superficie. Mettendo insieme un minimo di elementi, l’artista crea coscienza del modo in cui diverse proprietà dei materiali, composizione e colore possono confrontarsi e modellare il comportamento fisico del pubblico. Nel costruire strutture astratte biomorfiche e oggetti difettosi e macchiati, la pratica di Titova fa riferimento alla critica che definisce la forma minimalista brutale e imperiosa. Ma il suo lavoro è pervaso dall’ambiguità: esasperando e attaccando questa contorta logica di potere, reifica la qualità autoritaria del momento che tende a disonorare.Jacques Testard
sarà che siamo quasi in zona bar/bistrot e la stanchezza e la fame iniziano a farsi sentire, ma non sono la sola a non soffermarmi molto sul valore dell'installazione...
è con sollievo che sprofondiamo sui comodi divani che permettono la visione di The Clock, opera al confine con la cinematografia, che ha permesso all'americano Christian Marclay di vincere il Leone d'oro per il miglior artista. La giuria ha così motivato la scelta:
Marclay negli ultimi trent’anni ha scardinato i confini tra i diversi generi e forme artistiche. The Clock è indubbiamente un capolavoro.
l'opera consiste in un film della durata di ventiquattro ore composto da migliaia di sequenze tratte da altri film in cui i personaggi interagiscono con il tempo, spesso compaiono orologi che, come per magia, segnano esattamente l'ora in cui lo spettatore sta vedendo l'opera di Marclay. prima di tutto, un enorme omaggio al cinema e forse la dimostrazione che il cinema è ancora preferibile all'arte contemporanea (ovviamente ogni mio interesse privato non ha inciso minimamente in questa mia ultima considerazione)
dopo una ventina di minuti di visione, finalmente il bar bistrot, fotogenico come spesso accade nei luoghi d'arte, perlomeno per me
non ci sono testimonianze fotografiche, e me ne dispiace, dell'opera che più mi ha colpito in questa parte di ILLUMInazioni, ovvero l'installazione di Haroon Mirza, The National Apavillion of Then and Now, oltre che dell'interessante Untitled (Trashcan) di Klara Lidén e di ovviamente molte altre che però meno mi han colpito... ma attenzione all'Arsenale si prosegue, dopo la sosta al bar, con alcuni padiglioni nazionali, fra cui quello italiano.
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